martedì, maggio 08, 2007


Trasporti Speciali
Prendo il testimone da Formaldeide 77 e proseguo il racconto.

Giovandone viveva alla periferia di “Chiuso” nel suo capannone, all’esterno un’insegna: TRASPORTI SPECIALI.

Nessuno sapeva bene quale fosse la storia di Giovannone, ne quale fosse la sua età, in paese si mormorava che fosse figlio di una badante ucraina rimasta miracolosamente incinta da un suo assistito, si dice che dopo averlo dato alla luce se la fosse battuta come era usanza dalle sue parti, lasciando il pargolo come unico erede di quel vecchio tisico che come unica proprietà aveva quel capannone e un camion per trasporti speciali.

Per gli abitanti di Chiuso Giovannone era un viaggiatore dell’ignoto, una sorta di Marco Polo che si recava spesso, per questioni di lavoro, al di là del mondo conosciuto, che poi era Chiuso stesso.

E si, perché di trasporti speciali nella piccola cittadina ce n’era veramente poco bisogno e Big John, come lo chiamavano oltre frontiera, era costretto a recarsi ovunque ci fosse qualcosa di mastodontico da trasportare, fosse anche in Cina.

Quel giorno Giovannone stava riparando il suo camion, gocce d’olio a ritmo costante che cadevano dalla gigantesca coppa sotto l’asse di traino, avevano ritinteggiato di nero quasi tutta la sua tuta da lavoro ed ora, appiattito come era sotto la gigantesca motrice dava l’impressione di essere una gigantesca salamandra antropomorfa.

Squilla il telefono e Giovannone prontamente bestemmia. “Non c’è nessuno, non c’è nessuno” urla all’aria immobile come se ci fosse qualcun altro nell’officina con lui che si appresta a rispondere. Ma non c’è nessuno, per un attimo la salamandra si era dimenticata di essere un animale solitario.

Dopo cinque minuti di incessanti squilli, prima che la sua testa inizi a dargli allucinazioni per sonore per il resto della giornata, il nostro autotrasportatore di eventi speciali scivola imprevedibilmente fulmineo da sotto il camion e con altrettanta inaspettata agilità, con un unico gesto si alza e agguanta il telefono.

“Trasporti Speciali Rickter” e poi silenzio. Dall’altra parte una voce grassa e piena, come se provenisse da una bocca costantemente riempita da un boccone di cibo, gli fa: “Giovannone, sono Spadino! Ti ricordi? Al doposcuola, tiravamo i sassi alle suore”

“Spada ciao, scusa se non scodinzolo dalla gioia ma sono murato di lavoro, dato che non ci sentiamo da dodici anni immagino tu abbia chiamato perché hai bisogno di me quindi, se non ti dispiace, passiamo subito al sodo”

Dall’altra parte qualche secondo di silenzio, poi un singulto, poi una pausa e poi una schiarita di voce che deve aver prodotto una palla di catarro nell’imboccatura della trachea perché per qualche secondo Spadino tossisce convulsamente. “Scusami, ho bisogno del tuo camion per un trasporto “speciale”

“Ok, dimmi solo per quando ti serve e le misure della zavorra” lo interrompe subito Giovannone.

“Domattina, le misure sono 3 mt per due circa”.

“Queste dimensioni non sono da trasporto speciale Spadino, non devi chiamare, prova da Franco sulla statale lui ha un rimorchio normale”

“No giovannone ho bisogno di te, non si tratta di un trasporto qualunque ma di una bara, una bara, diciamo così, fuori misura.”

Giovannone strabuzza gli occhi, inspira profondamente e repentino, con una mano va ad agguantarsi saldamente i testicoli, come da migliore tradizione: “ma stai scherzando, cosa ti salta in mente Spada! Questa è roba da becchini, io non trasporto cadaveri”

La voce di Spadino ora si fa più profonda e decisa: “non è un cadavere qualsiasi, si tratta di un corpo enorme, il corpo di una donna enorme”

Una donne enorme, pensa Giovannone, enorme come lui che sin da piccolo aveva dovuto convivere con quel maggiorativo del suo nome e con tutte le rime che ad esso si intonavano. Certo gli sfottò dei compagni di scuola erano durati ben poco perché già a nove anni Giovanni il Grande era alto più di un metro e ottanta e aveva le braccia grosse come le gambe della maggior parte dei suoi compagni. Una vita di solitudine era stata l’inevitabile conseguenza di quella mole, di quella apparente indistruttibilità. “Senti mi dispiace per quella poveretta ma io non ho il mezzo adatto e neanche il tempo per fare un servizio del genere” Di ciccione che muoiono è pieno il mondo e certamente non ci sarà un trasporto speciale per ciascuno dei loro funerali, che la facessero a pezzi se non sono in gradi di trasportarla intera.

Dall’altra parte del microfono ora non si sente più nulla, secondi interminabili di silenzio, in un'altra situazione Giovannone avrebbe riagganciato preso com’era dal rimettere in carreggiata il suo bestione a quattro ruote motrici. Ma in quella situazione c’era qualcosa di insolito, i vecchi amici non si rifanno mai vivi per nulla.

“Giovanni, si tratta di Guenda”

Non era tanto stato il nome antico di una vecchia compagna di scuola a procurargli un tonfo al cuore, quanto forse il sentirsi chiamare per la prima volta senza maggiorativi, chi ha inventato i soprannomi deve aver pensato a momenti come questo, nei quali l’assenza del soprannome serve a dare alla conversazione un tono immensamente più profondo.

E infatti Giovanni non può che ridere d’imbarazzo e chiedere: “Guenda? Ma chi la biondina boccoluta con la quale giocavamo a guardarci nelle mutande a scuola?”

“Esattamente” replica prontamente Spadino “solo che ora pesa 140 chili, lavora al supermarket in centro ed è morta”

“….o beh, certo, però è ancora bionda e boccoluta”

La vita non è mai abbastanza lunga per allontanarti definitivamente dalla tua infanzia, passi vent’anni su un camion in giro per il mondo, ti fai una reputazione tra i motel e le osterie di mezza Europa e di metà Asia tanto da dimenticare anche il perché è iniziato tutto questo, per poi essere ricacciato al tempo delle elementari da una telefonata.

“Si, me la ricordo Guen, la valchiria, l’amante di tutti noi pezzenti che non riuscivamo a trovarci una ragazza per via dei brufoli o della ciccia”

Quel corpo flaccido e mastodontico era più conosciuto in paese di quanto il popolo che vive acquattato dietro alle finestre potesse mai immaginare. Molto più amato di quello di tante giovani e più attraenti donne che da Chiuso erano uscite in cerca di quel genere di felicità che molti acquistano in edicola e che ora trascorrevano i loro anni migliori facendo pompini nei sedili posteriori delle automobili blu scuro di uomini sudici, vecchi e importanti.

La verità è che tutti a modo loro, Guenda l’avevano amata e dimenticata e senza nemmeno volerlo fare. Semplicemente la vita aveva offerto ad un certo punto a ciascuno di loro migliori distrazioni e lei era rimasta li, con un registratore di cassa come unico compagno stabile della sua breve esistenza. Non che le importasse molto, lei negli uomini non ci aveva mai creduto, neanche quando uno di loro con una pistola in mano le aveva detto che era carica e che se non avesse svuotato la cassa l’avrebbe fatta fuori.

Ma si sa, ci sono atteggiamenti che adottiamo per tutta la nostra esistenza per proteggerci dagli altri e, quando qualcuno violentemente irrompe nella nostra vita, proprio non possiamo cambiare idea in un secondo. E proprio per un secondo di troppo Guen se n’era andata. L’ennesimo proiettile conficcato nella sua carne ma che stavolta non potrà uscire da dove è entrato.

“Domattina sbrighiamo questa faccenda, ma poi mi devi dimenticare come hai fatto in tutti questi anni Spada, perché io le vostre sfottute facce non le sopporto, non le ho mai sopportate”

“Certo, ti capisco, comunque vedrai che alla processione non ci sarà nessuno del paese, forse soltanto qualche collega di lavoro”

Il corso principale di Chiuso è lastricato con un asfalto così compatto che sembra un’unica lastra di marmo lunga tre chilometri, un marmo grigio circondato da case grigie che alla luce dei lampioni sembrano verdi.

Sparute anime grigie si aggirano per i marciapiedi larghi, puliti e desolati di quella che dovrebbe essere la via più trafficata di una città. Ma Chiuso non è una città qualunque, qui la gente vuole condividere dei luoghi comuni per il puro gusto di non beneficiarne e poter dire: “ho di meglio da fare”

Ma oggi nessuno ha di meglio da fare che spiare da dietro le tende ciò che sta accadendo nel corso.

Un mastodontico autotreno sta occupando per tutta la sua larghezza la strada tanto che neanche una bicicletta potrebbe passargli a fianco per superarlo senza dover salire sul marciapiede. Una musica compulsava si sente provenire ogni cinque secondi più forte dalla cabina di pilotaggio: è blues, Juke Joint Woman dei Watermelon Slim. Sul rimorchio dell’autotreno, al quale è stato tolto il tendone svetta una gigantesca bara rosa, i ragazzi ci devono aver messo tutta la notte per dipingerla e cromarla, è fatta così bene tanto che potrebbe sembrare il macabro optional di una Cadillac appartenente a qualche eccentrico miliardario texano.

Fissare un cadavere non è il modo migliore per sentirsi vivi, questo ve lo dicevo quando vi scoprivo a fissarmi ed ero ancora viva. Ora che sono morta vi dico: guardate pure perché non state che guardando voi stessi.

3 Comments:

Anonymous Anonimo said...

bravo! bello.. mi piace si si .. Bravissimo anzi.

11:58 AM  
Blogger Whitedog said...

beh, a dire il vero il finale l'ho un po' tirato via...però certi concettini che mi interessavano ho cercato di farli passare tra le righe.

1:43 PM  
Anonymous Anonimo said...

:) ma li hai fatti passare molto bene tra le righe.. ora smetto di sviolinarti e vado a bermi una birra ehhe

2:43 PM  

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