CARTOLINE DAL PASSATO

L'acido e l' LSD sono la stessa cosa. Ve lo dico perchè io non lo sapevo.
Quell'anno avevo 22 anni e vivevo in una stanza in affitto all'ultimo piano di quella che, se mi fossi trovato in una cittadina americana, si sarebbe chiamata Heaven Road.
Io e i miei amici ci compravamo i jeans allo Squire Shop all'incorcio tra due strade che, se si fossero trovate in una cittadina degli stati uniti si sarebbero chiamate Diaz Boulevard e Baker Street.
Portavamo pantaloni da carpentiere a vita alta con la fibbia dietro e un occhiello a metà coscia per appenderci il martello. Allo Squire Shop avevano i jeans bianchi da imbianchino e quelli a righe da meccanico. Ascoltavamo i Pink Floyd, Jeff Buckley e i Radiohead.
Ancora prima, quand'ero al liceo, avevo visto un film inquietante dal titolo Focus On Acid. L'acido poteva farti scambiare la fiamma di un fornello per un bel garofano azzurro. Ti venivano i flash back anche ad anni di distanza e andavi a schiantarti in macchina.
Ciò nonostante, anni dopo, quando alcuni amici mi proposero di mangiarci un cartoncino di LSD e di andare a vedere lo show di luci laser su musiche dei Radiohead al planetario io risposi di si: pronti. Eccomi.
L' LSD non era che dietilammide dell'acido lisergico. Un semplice alcaloide. Una sostanza chimica come tante altre. Roba scientifica.
Accadeva in dicembre, all'epoca in cui il planetario si trovava sulle colline occidentali della città.
Al crepuscolo, seduti nel freddo del parcheggio, mangiammo ciascuno un piccolo francobollo di carte impregnato di LSD, e i miei amici mi spiegarono che cosa mi sarei dovuto aspettare. Prima avremmo riso un sacco. Avremmo riso così a lungo e così tanto da avere male ai muscoli della faccia per giorni. Poi avremmo digrignato i denti. Era importante saperlo, perchè così evitavi di consumerti i molari.I miei amici dissero che tutte le luci e i colori avrebbero prodotto una scia tipo quella di una cometa. La vernice sui muri avrebbe dato l'impressione di colare via. Prima avremmo guardato lo spettacolo di luci laser, poi ce ne saremmo andati in giro tra le case della periferia, a sballarci con le lucine degli addobbi natalizi.
Nel planetario le sedie erano disposte a cerchio intorno al proiettore, al centro della stanza rotonda. Seduti accanto a me, da un lato ci sono i miei amici, dall'altro una donna che non conosco. I Radiohead esplodono dalle casse e i laser rossi svolazzano sul soffitto a cupola buio, e io rido così forte che non riesco a fremarmi. Mettono su
Everything in it's Right Place, e cominciano a farmi male le mascelle. Poi è la volta di
Kid A, e l'amico seduto alla mia sinistra mi dice: "Ficcati in bocca qualcosa. Sennò ti spacchi i denti".
Aveva ragione, mi sentivo i molari arroventati e in bocca avevo quel sapore di metallo bruciato che ti resta quando ti fai trapanare una carie. Per dire quanto forte stavo digrignando i denti.
Era dicembre, perciò eravamo tutti provvisti di cappelli di lana a punta e spesse sciarpe lavorate a meglia. Mi infilai la sciarpa in bocca e rocominciai a masticare.
A un certo punto mi resi conto che stavo soffocando. Avevo la gola piena di qualcosa di morbido e asciutto. Avevo i conati, e la bocca piena di roba stopposa e infeltrita. Sembravano fibre. O capelli.
Nel buio, con i laser che svolazzavano e i Radiohead che esplodevano, la mia sciarpa aveva qualcosa di strano. Era troppo morbida, ed io comiciavo a sputacchiare pezzetti di pelliccia animale. Se di visone o di coniglio non l'avrei saputo dire, ma era senza dubbio pelliccia.
La donna seduta al mio fianco ne indossava una, e l'aveva lasciata scivolare dullo schienale della sedia, così una manica mi si era posata in grembo. Ecco cosa mi ero messo in bocca, e qui, nel buio, avevo masticato, rosicchiato e inghiottito tutto il pezzo tra il gomito e il polso.
Ora i miei amici stavano cercando di passarmi una bandana intrisa di non so quale solvente chimico. Da sniffare. Puzza di calzini sporchi, e la gente seduta intorno a noi cominciava a lamentarsi per l'odore.
Da un momento all'altro i laser e la musica sarebbero finiti. Si sarebbero accese le luci, e la gente si sarebbe alzata in piedi. Si sarebbero infilati cappelli e guanti. E la sconosciuta accanto a me al posto della manica della sua pelliccia avrebbe trovato una poltiglia bavosa. Io me ne sarei stato li, con la bocca ricoperta di pelliccia bagnata. Ciocche rosicchiate infilate tra i denti. A tossire pelo di visone appallottolato.
Gli amici mi davano di gomito, stavano ancora cercando di passarmi la fetida bandana intrisa di solvente. Tetracloride di carbonio, altra sostanza chimica come altre. E la tipa della pelliccia seduta al mio fianco dice: "Cristo, ma cos'è quest'odore?".
Mente finisce l'ultima canzone, prima che le luci si riaccendano, io mi alzai. Dissi ai miei amici: andiamo via. Subito. Li spinsi verso il corridoio tra le sedie. Quando le luci si accesero mi stavo praticamente arrampicando su di loro, gli dissi: "Correte. Niente domande. Usciamo di qui e basta".
Quelli ovviamente credevano che fosse un gioco. E così cominciammo a correre. Fuori dalle uscite antincendio, l'enorme parcheggio era immerso nel buio, e nel frattempo aveva cominciato a nevicare.
Con la neve che ci cadeva intornoa grandi fiocchi, corremmo. Di notte, attraverso il parco. Oltre le luci di natale sulle villette familiari, e ogni punto colorato si allargava in una macchia. Una scia. Correvamo attraverso il giardino delle rose, con la città dispiegata sotto di noi. E i miei amici ridevano. Con le dita e le facce che puzzavano di solvente chimico, correvano nella neve che che cadeva, pensando che fosse puro e semplice divertimento.